“Non c’è bestia così feroce da non conoscere un minimo di pietà.
Ma io non ne conosco e quindi non sono una bestia”
(Wiliam Shakespeare)
In questa raccolta di racconti Ottavio Bosco conferma la vivace vena narrativa alla quale ci ha
abituato nei due precedenti romanzi.
Le diciannove storie che ci vengono proposte sono diverse tra loro per sviluppo e per
ambientazione, ma al tempo stesso sono accomunate da un funesto filo conduttore di sangue e
sofferenza.
Bosco scherza col fuoco. I personaggi usciti dalla sua penna camminano sul sottile confine che
separa la vita e la morte, oltrepassandolo sovente – e non necessariamente in una direzione
sola.
Quello che ci viene descritto è un mondo onirico e surreale, nel quale le coscienze sono
deformate e le azioni sono la proiezione di deliri egotistici.
Il ricorso frequente al simbolismo di natura religiosa e più in generale esoterica contribuisce a
fornire l’idea di una realtà in preda a forze che trascendono la razionalità e qualsiasi capacità
umana di controllo.
A volte il male assume manifestazioni grandiose; altre volte scaturisce nei contesti più
normali e nelle forme più banali. Esso resta, tuttavia, un flusso costante ed ineluttabile. Talora
rimane in forma carsica, ma poi al momento opportuno riaffiora in superficie e niente può
impedire che faccia il suo corso.
La narrazione dell’autore è schietta e caustica, il linguaggio scelto volutamente ruvido. Ben si
adattano al subconscio emotivo che anima i racconti.
Nell’universo di Bosco non esistono i buoni, o più esattamente i buoni sono buoni solo nel
senso che combattono i cattivi, ma di questi ultimi condividono i metodi e l’assoluta amoralità.
Eroi ed antieroi giocano una partita ad armi pari e le armi sono quelle di una violenza sadica,
per quanto in qualche misura sofisticata.
Massimo Ortis, il protagonista boschiano per eccellenza ha l’acume, la cultura e la
predisposizione al successo che contraddistinguono altri eroi della letteratura, da Sherlock
Holmes, a James Bond o a Robert Langdon, ma mentre tali personaggi sono epitomi di classe e
di dirittura morale, l’originalità che il romanziere pisano conferisce ad Ortis è il carattere
cinico e profondamente misantropico, oltre che il disprezzo di qualsivoglia convenzione
sociale.
Del resto, nessuno dei protagonisti dei racconti di questa raccolta è in pace con la società.
Ognuno vive la propria personale alienazione e persegue la propria vendetta privata, non
importa se motivata da torti effettivamente subiti oppure da più intimi percorsi
psicopatologici.
Bosco delinea figure autoreferenziali e prive di qualsiasi rapporto empatico con l’altro e da
nessuna parte nel libro paiono emergere i presupposti di una rinascita spirituale, né tanto
meno di una genuina declinazione del rapporto tra l’uomo ed il mondo che lo circonda.
Perché tutto questo “cattivismo”? Ci si può ragionevolmente chiedere se siamo solamente di
fronte ad un riuscito espediente narrativo, oppure se l’autore ci vuole comunicare un
pessimismo di fondo sull’essenza intima del genere umano.
La questione è se Bosco sta descrivendo un incubo spaventoso quanto lontano dal nostro
afflato vitale, oppure se la sua è una lettura disincantata delle dinamiche della stessa società in
cui viviamo.
Non è che forse alla fiction è affidata la funzione di metafora di vizi ed abiezioni del mondo
reale che non sempre è possibile combattere “di fioretto” e per i quali molti, in fondo, sentono
il bisogno di invocare l’azione senza quartiere di un “purificatore”?
I racconti non risolvono questo legittimo dubbio. Al lettore il compito di farsi la propria idea.
Marco Faraci